giovedì 11 gennaio 2001

il giudizio e il suo rifiuto



Dare un giudizio ha voluto dire trovare un rifiuto.

Alla fine di ogni corso, di formazione (per formare le menti?), sono “invitato” a fare una verifica e a questa corrisponde spesso una noiosa attitudine, dare un giudizio o ancora peggio esprimere questo giudizio attraverso il voto.

Ricordo da ragazzino che la mia professoressa di Filosofia, alla fine del 2°quadrimestre dopo avermi concesso un bel 7 e mezzo, stupita mi disse:“io ti ho sempre pensato un tipo da 6”.

La mia allieva di fronte ad un “appena sufficiente” commenta :”Io non me lo merito!”

Quante volte io ho risposto così o meglio, ho avuto almeno il coraggio di rispondere: Questo giudizio non lo merito!

Ho sempre accettato il giudizio degli altri, e soprattutto è stato sempre un giudizio obiettivo?

Quello che so oggi è che il giudizio risulta essere un’etichetta, dietro la quale è difficile ritrovare la ragione del fare e dell’essere. 

Non posso tornare indietro! e per questo un giudizio espresso sulla base di un calcolo più o meno matematico e non certo sul grado di simpatia e antipatia mi fa riflettere sul ruolo incorruttibile del “giudice”. Ovvero colui che detiene o ha detenuto il potere di giudicare. 

Per me quel giudice ha una forma: si tratta di un archetipo ben presente nella mia mente, duro, robusto e autoritario, dalla pelle chiara e dalla voce imponente. Ma che in fondo presenta tutte le fragilità del maestro che punisce senza ascoltare. Che giudica senza conoscere l’oggetto / soggetto del giudizio.